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IL TRIBUNALE DI MILANO PRENDE POSIZIONE SUL CONCETTO GIURIDICO DI MARK TO MARKET



Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

La sentenza della VI^ sez. civile del Tribunale di Milano (19 aprile 2011, n. 5443, Presidente Laura Cosentino, pubblicata su www.ilcaso.it), oltre ad offrire diversi spunti di riflessione attorno a temi dibattuti e ricorrenti in materia di derivati, merita di essere commentata soprattutto per la netta presa di posizione a riguardo della controversa nozione di mark to market (o fair value).
La vicenda posta all’esame dei giudici meneghini prende spunto da un’impresa lombarda dedita all’attività di acquisto di materiali semilavorati (tubi in acciaio) dal mercato degli Stati Uniti d’America e successiva rivendita degli stessi prodotti nel mercato nazionale ed europeo.Nei primi mesi del 2002, l’azienda, proprio per il fatto di dover solitamente effettuare acquisti di beni in dollari (in una fase in cui il tasso di cambio dollaro/euro si collocava ancora sotto la soglia psicologica dell’1 a 1), veniva convinta dalla banca ad acquistare un derivato su valuta con il dichiarato obiettivo di “coprirsi” dal rischio di un eccessivo apprezzamento della divisa statunitense.

Si trattava di un prodotto denominato “dual forward” e rientrante nella categoria delle currency options: esso si componeva, al suo interno, di 3 tipi di opzioni put euro-dollaro, tra di esse sinergicamente interdipendenti e collegate a tre tipi diversi di scenario.

Attraverso una consulenza tecnica esperita in corso di causa, si è riusciti a smascherare il meccanismo alquanto surrettizio predisposto dall’istituto bancario: in pratica, l’impresa si era obbligata, sulla base delle suddette opzioni put interconnesse, a vendere dollari alla banca oppure a comprarne dalla stessa ad un determinato prezzo a seconda della possibile oscillazione del tasso di cambio; l’operatività in concreto dell’una o dell’altra opzione era fatta scaturire dall’andamento del tasso di cambio rispetto a dei tassi-barriera assunti quale punto di riferimento.

Analizzando approfonditamente i meccanismi del prodotto, è risultato in fin dei conti che l’impresa risultasse coperta dal rischio di eccessivo rialzo del dollaro soltanto in una sfera limitatissima di probabilità (range) e cioè unicamente nel caso in cui il tasso di cambio fosse oscillato tra 0,8644 e 0,918 (dollari per 1 euro). Viceversa, in tutte le altre ipotesi, l’impresa ci avrebbe sempre e comunque rimesso, sia che il dollaro “salisse” e sia che il dollaro “scendesse”.

Più in particolare, qualora il tasso di cambio fosse andato al di sotto di 0,8644 (e cioè in caso di apprezzamento del dollaro), l’opzione put sottoscritta dall’impresa la costringeva a vendere dollari alla banca ad un prezzo più basso di quello corrente di mercato, rendendo così un indubbio vantaggio alla stessa intermediaria. Qualora il tasso di cambio avesse invece superato la soglia di 0,918 (e quindi in un ipotetico scenario di deprezzamento del dollaro), la terza opzione put di cui si componeva il derivato avrebbe costretto l’impresa a comprare dollari dalla banca ad un prezzo ben più alto di quello di mercato, rendendo anche in tal caso un grosso vantaggio all’istituto e col rischio di subire perdite potenzialmente illimitate (maggiorate a causa del cosiddetto “effetto-leva”). E infatti, in coincidenza con una fase di costante svalutazione della divisa americana, l’impresa aveva finito col tempo per accumulare pesantissime perdite, potenzialmente esiziali.

La valutazione preliminare dalla quale hanno mosso i giudici milanesi nell’elaborazione della propria decisione è stata che, attraverso la sottoscrizione di un derivato di siffatta specie, il rischio dell’impresa – anziché ridursi – era stato fatto aumentare esponenzialmente.

Pur tuttavia, il collegio ha respinto la tesi attorea mirante a far rientrare i derivati currency options nel concetto di contratto aleatorio unilaterale (quello in cui il l’alea del negozio, in sostanza, è fatto ricadere interamente nella sfera giuridica di uno soltanto dei contraenti): nonostante la considerevole differenza riscontrata tra i rischi assunti dalla banca (limitati) e quelli assunti dall’impresa (illimitati) i giudici non non se la sono sentita di negare la sussistenza dell’elemento dell’aleatorietà nel derivato ed hanno affermato, alla stregua dell’art. 1322 cod. civ., che il contratto non fosse “immeritevole di tutela da parte dell’ordinamento”.

Tuttavia, la banca è stata ugualmente “colta in castagna” avendo nella fattispecie violato i generali obblighi di comportarsi secondo diligenza, correttezza, professionalità e trasparenza (di cui all’art. 21 del T.U.F.) in quanto, anziché venire realmente incontro all’esigenza del cliente – interessato a coprirsi dal rischio di cambio – gli avrebbe messo a disposizione un prodotto finanziario altamente sofisticato basato su di una “complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita” che tutto avrebbe realizzato all’infuori della promessa funzione di copertura: da tanto è scaturito l’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto con la condanna della banca a restituire una somma di poco maggiore a 5 milioni e settecentomila euro.

Ma il punto della sentenza in discorso che merita forse maggiore rilievo è quello in cui i giudici milanesi si sono espressi con risolutezza a proposito del concetto di mark to market, a cui hanno provato a dare una definizione giuridica.

L’impresa aveva agito in giudizio contestando, tra le altre cose, l’indeterminatezza dei parametri attraverso i quali si doveva pervenire al calcolo del mark to market nell’ipotesi di recesso anticipato dal rapporto contrattuale, denunciando che tale determinazione di valore (negativo) sarebbe stata in fin dei conti affidata al “cieco arbitrio” della stessa banca.

Quest’ultimo ragionamento era funzionale a che fosse pronunciata la nullità del contratto stante l’indeterminatezza del suo oggetto.

E’ noto infatti che il carattere indeterminabile dell’oggetto di un contratto costituisce, alla luce del combinato disposto ex artt. 1346 e 1418 cod. civ., una causa tipica di sua nullità.

Ma tale linea di ragionamento non è stata condivisa  dai giudici meneghini, i quali hanno perentoriamente affermato che il mark to marketnon può essere considerato l’oggetto del contratto. Si tratta di un valore che viene dato in un certo momento della sua vita ad un derivato, la cui stima involge notevoli aspetti previsionali e che di per sé non comporta alcuna giuridica conseguenza sulla posizione delle parti, non si traduce cioè in una perdita monetaria o in un obbligo di pagamento. Si tratta di una sorta di rating evoluto, ed infatti l’iniziale funzione è solo quella di consentire il monitoraggio dell’andamento del derivato, agganciandosi all’ipotesi della istantanea chiusura del rapporto”.

Quindi, secondo il Tribunale di Milano, un valore di MTM negativo “non si trasforma necessariamente in un esborso monetario a carico del debitore” ma è essenzialmente legato alla sola ipotesi di esercizio della facoltà di estinzione anticipata del derivato in un dato momento e “in tal caso, se negativo, il MTM si trasforma in un obbligo di pagamento immediato, ovvero in alternativa la sua negatività si trasfonde nel contratto rinegoziato”.

La presa di posizione del Tribunale di Milano sembra sposare pedissequamente una tesi già sostenuta da autorevole dottrina.

E’ stato infatti Emilio GIRINO (I contratti derivati, seconda edizione, 2010, Giuffrè ed., p. 459) a definire il mark to market quale “necessario corrispettivo per risolvere anzitempo un’obbligazione contrattuale di durata”.

Tuttavia, attorno alla vexata quaestio della determinabilità del mark to market è prematuro affermare che i giochi possano dirsi già chiusi, pur volendo condividerne la natura di mero patto accessorio al contratto su derivati.

Difatti, come è stato lo stesso GIRINO ad ammonire, a proposito del MTM il vero problema non risiede nella sua debenza, sia in caso di rinegoziazione che nel caso di cessazione prematura del derivato, ma sta precisamente “nel metodo di calcolo che conduce alla determinazione del valore di MTM. Problema questo di non agevole soluzione”.

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Link al provvedimento:

http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/3965.pdf


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