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NOTE CRITICHE A CASSAZIONE, SEZIONE II PENALE N. 47421-2011



commento a cura degli avvocati Luca Zamagni e Matteo Acciari (Axiis Network Legale)

Con sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, la seconda Sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi presentati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina, nonché dai Comuni di Messina e Taormina, con i quali era stata impugnata un’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Messina in data 1 giugno 2011.

L’ordinanza impugnata disponeva il dissequestro di alcune somme sottoposte a sequestro preventivo, siccome qualificate dalla Procura della Repubblica (e dal GIP presso il Tribunale di Messina, che nel proprio decreto aveva accolto le prospettazioni del PM) quale provento dell’uso asseritamente fraudolento di contratti di interest rate swap, stipulati dai suddetti Enti territoriali con una Banca.
In particolare, sempre secondo la prospettazione di GIP e Procura della Repubblica, non condivisa dal Tribunale del Riesame e dalla stessa Suprema Corte, il ricorso a contratti finanziari derivati, finalizzati alla ristrutturazione dell’indebitamento degli Enti, avrebbe generato consistenti danni economici connessi al carattere ab origine squilibrato dei contratti (e delle rimodulazioni dei medesimi), squilibrio non (adeguatamente) compensato dalla correlativa corresponsione di up front, con conseguente generazione di “costi occulti” a svantaggio dei contraenti pubblici e correlativo profitto illecito a vantaggio della Banca.
La sentenza n. 47421/2011 della Corte di Cassazione, che come anzidetto ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi promossi avanti ad essa per i casi di Messina e Taormina, appare chiaramente rivolta ad esaminare la questione degli swaps degli Enti locali al solo fine di acclarare se nella fattispecie sottoposta alle sue cure fosse dato rinvenire la presenza di quei requisiti che la norma processuale penale richiede sussistano per consentire il sequestro penale dei proventi del delitto che i ricorrenti lamentano essersi consumato ad opera della banca. E’ dunque anzitutto evidente come le considerazioni lateralmente svolte dalla Suprema Corte, su questioni finanziarie o di diritto finanziario, non possano né debbano frettolosamente assumersi quale fonte cristallizzata del pensiero della Cassazione in tema di swaps (ammesso che al riguardo ve ne sia già uno e che esso sia univoco), almeno laddove l’interpretazione resa risponda, come in questo caso, a criteri ermeneutici propri di una specifica sedes materiae. Purtuttavia, ed anzi probabilmente proprio in ragione del fatto che la Cassazione nella anzidetta sentenza n. 47421 era occupata da accertamenti “altri” rispetto a quelli che altrove si pongono a torto o a ragione al centro del contenzioso tra Enti locali ed intermediari in materia di derivati finanziari, della decisione del 21 dicembre 2011 appare utile approfondire alcune affermazioni che, già analizzate criticamente da autorevoli studiosi della materia economica e finanziaria e da operatori professionali del settore finanziario [1], risultano rese dai Giudici di legittimità senza un approfondito vaglio, e ciononostante già si rinvengono ripetute in taluni provvedimenti giudiziari successivamente resi [2]. * Muovendo dalla citata prospettiva, e tralasciando quindi di ingaggiare le questioni d’ordine prettamente penalistico poste al centro della decisione resa dalla Suprema Corte, ciò che anzitutto lascia perplessi nella sentenza n. 47421/2011 è l’omessa contestualizzazione della vicenda in riferimento alla normativa settoriale (o meglio, alla ratio ispiratrice della medesima) dedicata ai derivati degli Enti territoriali. Si afferma nella pronuncia in commento che “per poter stabilire se quel dato [ci si riferisce al valore del mark to market del contratto derivato sottoscritto dall’Ente locale, NdR] rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza […]”.
Si afferma, altresì che “[…] l’ordinanza impugnata ha correttamente posto in luce la circostanza che, alla stregua delle risultanze processuali acquisite […] fosse emersa la sostanziale convenienza della operazione finanziaria realizzata dai Comuni interessati, dovendosi fare riferimento agli effetti che i contratti avevano prodotto sulle finanze comunali in termini di cassa e non di competenza”.
Si ritiene che affermazioni di tale tenore non possano reputarsi compatibili con le prescrizioni dell’art. 41 Legge n. 448/2001, vera e propria Grundnorm in materia di operatività in derivati degli Enti locali.
E difatti l’art. 41 della Legge n. 448/2001, nel rendere esplicito che il ricorso alle operazioni finanziarie da esso elencate (fra le quali si è soliti ricondurre, secondo l’unanime opinione della dottrina e della giurisprudenza, anche quelle in strumenti derivati) è possibile “al fine di contenere il costo dell’indebitamento” senza parimenti disporre, neanche in via mediata, che la valutazione di un tale contenimento (ovvero della convenienza economica dell’operazione intrapresa dall’Ente pubblico) sia effettuata al termine del contratto, dovendosi anzi dire che la previsione di tale valutazione quale attività prodromica alla valida assunzione del vincolo contrattuale depone per un apprezzamento della convenienza economica condotto a priori e non a posteriori, giacché in tale ultima eventualità l’obiettivo della norma, al pari del suo valore precettivo, ne risulterebbe evidentemente frustrato.
In altre parole, quando il Legislatore ebbe a redigere il testo dell’art. 41 della Legge n. 448/2001 (così come la successiva normativa regolamentare e di dettaglio), aveva ben presente che l’elemento fondamentale per valutare la convenienza dell’operatività in derivati è il costo di quella operatività[3], da intendersi non certo come risultato da valutare a contratto eseguito e concluso, bensì come onere connesso alla sottoscrizione del contratto al momento della sua stipulazione, elemento che incide anche sulla valutazione del derivato come avente funzione speculativa più che di copertura.
Tale assunto è ben presente alla giurisprudenza più abituata a trattare la materia finanziaria, con la quale il ragionamento espresso dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale della Corte di Cassazione appare porsi in netto contrasto. A titolo esemplificativo, la Sezione Regionale di Controllo per la Lombardia della Corte dei Conti, nella Deliberazione n. 596/2007[4] ha assunto un approccio interpretativo ben distante da quello dei giudici di Piazza Cavour, affermando come: “in relazione al requisito della “riduzione del costo finale del debito” occorre ancora precisare che l’effetto del derivato (sia lo swap su tassi di cambio, che è obbligatorio, che lo swap da tasso di interesse da variabile a fisso, o viceversa, o l’acquisto di un opzione nei limiti nei quali è consentita) potrebbe risolversi per l’ente in un onere complessivo finale più elevato rispetto a quello che si sarebbe avuto se non si fosse conclusa l’operazione finanziaria. Conseguentemente, al riguardo, è fondamentale stabilire se il giudizio di merito sull’operazione debba essere dato con una valutazione ex post, vale a dire che utilizzi quale parametro l’effettivo esito dell’operazione, ovvero con una valutazione ex ante, che assuma quale punto di riferimento non l’effettivo esito dell’operazione, ma quello prevedibile al momento della conclusione, in relazione alle circostanze conosciute o conoscibili da chi ha stipulato il contratto. A seconda della prospettiva scelta l’acquisto di derivati di “copertura” può rientrare o meno nel concetto di “riduzione del costo finale del debito”, intesa come riduzione meramente eventuale in relazione a possibili, ma incerte, variazioni dei mercati finanziari, che, per l’appunto, il derivato può proporsi di neutralizzare, stabilizzando il debito. Ferma restando ogni perplessità in ordine alla natura del contratto che, considerata la durata, è caratterizzato dalla elevata aleatorietà dell’evoluzione dei tassi d’interesse, è evidente che se il legislatore ammette che possa essere concluso dagli enti territoriali, la valutazione sulla convenienza economica non può che svolgersi ex ante, vale a dire in relazione al momento della conclusione del contratto”. L’orientamento espresso dalla magistratura contabile, che depone chiaramente a favore di una valutazione ex ante della convenienza economica dei contratti derivati degli Enti locali, è stato altresì suggellato nelle parole che le Sezioni Riunite in sede di Controllo della medesima Corte dei Conti hanno reso il 18 febbraio del 2009[5] alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato in occasione del ciclo di Audizioni effettuate nell’ambito della “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni”. In tale sede, difatti, le Sezioni Riunite hanno affermato come: “uno degli aspetti più delicati in ordine alle attività di controllo nella materia in questione riguarda l’accertamento della convenienza economica che deve essere valutata in relazione alle conoscenze e cognizioni acquisite dalle parti al momento della conclusione del contratto”, e dunque a priori, e che: “al riguardo occorre rilevare che un’analisi completa degli aspetti finanziari non può prescindere dalla verifica delle curve forward dei tassi di interesse che sicuramente l’intermediario finanziario ha attentamente valutato prima di addivenire alla conclusione del contratto”.
E’ dunque chiaro alla magistratura contabile che la valutazione di convenienza rimessa alle parti dal dettame dell’art. 41 Legge n. 448/2001 sia attività prodromica alla stipulazione del contratto in derivati il quale, in difetto di un esito positivo della valutazione di convenienza condotto alla luce dei dati emergenti dalla documentazione sopra richiamata, non potrà essere affatto stipulato.
A tale conclusioni è giunta anche la magistratura civile nella nota sentenza n. 5118 resa dal Tribunale di Milano il 14 aprile 2011[6]. Nell’affrontare il tema della sussistenza della convenienza economica di uno swap negoziato da un Ente locale, il Tribunale meneghino ha infatti anch’esso concluso che: “sono nulli per difetto di causa in concreto i contratti swap sottoscritti da enti pubblici che alla data di sottoscrizione presentino mark to market negativo (c.d. swap non par) ove l’equilibrio sinallagmatico non sia ripristinato mediante erogazione di un premio corrispondente in sede di sottoscrizione del derivato”, ritenendo che: “il mtm negativo alla sottoscrizione dei contratti, tanto più se non esplicitato, attribuisce ai contratti swap una funzione speculativa in contrasto con la tipologia di contratti derivati rimessi alla possibile stipulazione da parte degli Enti Locali dall’art. 41 co. 1 L. 448/2001 e dall’art. 3 DM 389/2003”[7]. Ed ancora, l’isolamento in cui si inserisce la valutazione proposta dalla sentenza n. 47421 resa dalla seconda Sezione penale di Cassazione sul tema della valutazione di convenienza economica risulta confermato leggendo il ragionamento espresso dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 5032, resa dalla Sezione V il 7 settembre 2011 nell’ambito del contenzioso che coinvolge la Provincia di Pisa[8].
Anche i giudici di Palazzo Spada hanno infatti statuito chiaramente che: “in base a tale substrato normativo [ci si riferisce in particolare all’art. 41 Legge n. 448/2001 ed all’art. 3 Decreto MEF n. 389/2003, NdR] non può negarsi che la convenienza economica della ristrutturazione del debito, come del resto già accennato in precedenza, costituisse effettivamente la “causa” della stessa procedura di gara indetta dall’amministrazione provinciale di Pisa, avendo quest’ultima l’obiettivo di ridurre la sua esposizione debitoria e verosimilmente poter disporre di una maggiore liquidità da utilizzare per la tutela degli altri interessi pubblici affidati alle sue cure: la complessiva operazione di ristrutturazione del debito, del resto, secondo la stessa ratio ispiratrice del citato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 441, intendeva coniugare i vari interessi in gioco di contenimento della spesa pubblica, assicurando agli enti locali la possibilità di far fronte alla cura e alla tutela delle funzioni loro affidate, attraverso un’accorta politica di gestione economico-finanziaria anche del bilancio e delle relative poste passive. A ciò consegue che l’esistenza di “costi impliciti”, sia pur riscontrati dall’amministrazione provinciale solo dopo la conclusione del contratto, incideva effettivamente sulla convenienza economica dell’operazione di ristrutturazione del debito, diminuendone la sua stessa efficacia, a nulla rilevando la prospettazione, peraltro meramente formalistica, degli appellanti secondo cui gli strumenti finanziari derivati non sarebbero strumenti di debito e come tale non rientrerebbero nell’ambito di applicazione del ricordato articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 10: è sufficiente replicare al riguardo che i derivati costituivano lo strumento stesso attraverso cui si realizzava concretamente l’operazione di ristrutturazione del debito, così che essi (ed in particolare i loro “costi impliciti”, non facilmente riscontrabili dall’amministrazione e neppure dichiarati dalle banche) non possono non rientrare e non essere valutati ai fini della convenienza economica della operazione stessa e negli obiettivi con essa perseguiti”. Ma vi è di più. Vige attualmente nel nostro ordinamento un divieto temporaneo di stipulazione di nuove operazioni in derivati per gli Enti territoriali, introdotto dall’ art. 62 comma VI del Decreto Legge n. 112/2008, convertito in Legge n. 133/2008, normativa, come noto, sottoposta a verifica di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Nella propria Sentenza n. 52 del 18 febbraio 2010[9] il Giudice delle Leggi, dopo aver ritenuto la legittimità del richiamato divieto normativo di stipulazione dei contratti derivati da parte degli Enti territoriali, la natura fortemente aleatoria degli strumenti di finanza derivata ed il carattere di oggettiva pericolosità per l’equilibrio della finanza locale di siffatte tipologie di operazioni, ha altresì stigmatizzato come consentire agli Enti locali il perdurante utilizzo degli strumenti derivati esponga la finanza ed i bilanci pubblici al rischio di assumere oneri impropri, in quanto: “la realtà ha ampiamente dimostrato che persino le operazioni di rinegoziazione dei contratti derivati, a seguito di ristrutturazione del debito, nel prevedere fin dall’inizio condizioni di sfavore degli enti, comportano l’assunzione di rischi aggiuntivi mediante lo spostamento nel tempo degli oneri derivanti da condizioni ancora più penalizzanti rispetto a quelle iniziali”. E’ evidente che, se la Corte Costituzionale si fosse ritenuta vincolata ad un esame della convenienza economica dei soli effetti “a scadenza” di uno swap, essa non avrebbe potuto rendere le affermazioni sopra riportate.
Appare dunque in modo lampante dalla breve rassegna che precede come un corretto apprezzamento della normativa di settore deponga a favore della tesi secondo cui il momento in cui devono valutarsi i contratti (e la loro convenienza economica) è quello della relativa accensione e non già quello della loro conclusione.
E’ d’altro canto nella prospettiva di una valutazione a priori che acquisisce significato il carattere par o non par del contratto medesimo e si comprende appieno la funzione dell’up front.
Nelle parole della Consob: “i contratti non par […] presentano al momento di stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. […] i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro […]; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front”[10].
L’omessa (o la parziale) corresponsione, al momento della stipula o della rimodulazione del contratto, dell’up front al contraente svantaggiato da parte del contraente avvantaggiato, costituisce il costo implicito (altrimenti definibile anche come costo occulto o commissione implicita). Il costo implicito altro non è se non la rappresentazione “plastica” della deminutio patrimonii subita dal cliente, cui corrisponde un indebito (ed occulto) arricchimento del contraente bancario. Ossia, in altre parole, l’ingiusto profitto.
Al riguardo, proprio in tema di quantificazione del costo implicito nell’ambito dei contratti swap, ad oggi si confrontano tesi diverse, ancorché deve oramai convenirsi che le diversità di opinioni al riguardo attengano appunto al quantum del costo implicito, piuttosto che, come accadeva in passato, alla sua stessa esistenza[11]. Come visto, sono molteplici le considerazioni che suggeriscono la conclusione che l’orientamento espresso dalla seconda Sezione penale della Suprema Corte nella sentenza n. 47421 del 21 dicembre 2011, in tema di “convenienza economica” debba essere rimeditato, e a ciò deve aggiungersi che un’opera di rimeditazione non potrà che involgere la connessa questione di una corretta qualificazione giuridica del mark to market dei contratti derivati.
Si legge infatti nella pronuncia in commento che il “mark to market non esprime affatto un valore concreto e attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata” (in argomento si è efficacemente parlato di “metafisica giurisprudenziale”[12]).
Il dato appare errato, esprimendo invece il mark to market il valore di mercato del derivato ad un dato momento, coincidente con quello in cui tale valore è rilevato. E tale valore (che può essere positivo o negativo per l’uno, come per l’altro contraente) è la risultante dell’attualizzazione dei flussi differenziali a scadenza al momento della rilevazione.
Non per questo, tuttavia, il mark to market è una posta, per così dire, “virtual- probabilistica” ed accessoria del contratto, come pare invece sostenere la sentenza della Cassazione. Sembra infatti che i giudici della Suprema Corte abbiano confuso la rilevazione di un valore storicamente dato, qual è il mark to market all’atto della stipula del contratto, con le previsioni sui futuri mark to market che il contratto potrà assumere che sono necessariamente caratterizzati da un margine di aleatorietà, siccome funzione dell’andamento delle variabili finanziarie.
Al contrario, all’atto della rilevazione (ed in primis, all’atto dell’accensione del derivato), il mark to market esprime il valore del contratto nel momento esatto di rilevazione e dunque, perdendosi ogni apprezzamento futuro del medesimo, il suo valore concreto (a cui il contratto potrà essere stipulato, trasferito o ceduto).
E’ così, in un’ottica di contrasto alla visione di “virtualità” del concetto che è stata espressa dalla Cassazione penale, giova in questa sede[13] rammentare come a favore di una contraria “concretezza” del mark to market depongano:
(i) i principi contabili internazionali (ed in particolare allo IAS 39), in base ai quali i derivati sono classificati quali “attività / passività finanziaria al fair value rilevato a conto economico”, in quanto tali appostati a bilancio dagli intermediari finanziari. In tal senso, come è stato giustamente osservato “è in gioco, anche, che lo squilibrio originario del derivato a vantaggio della banca costituisca un vantaggio patrimoniale astrattamente rilevante a fini di appostazione a conto economico e quindi costituisca un profitto economico”[14];
(ii) il preciso obbligo che gli stessi Enti locali hanno di rappresentare nei propri bilanci l’operatività in derivati, a mezzo dell’allegazione di apposita nota indicante la valutazione degli oneri e dei rischi finanziari correlati al contratto derivato (cfr. art. 1 comma 383 Legge n. 244/2007, ripreso dall’art. 62 comma 8 D.L. n. 112/2008, n. 112, convertito in Legge n. 133/2008, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3 Legge n. 203/2008)[15], con le note conseguenze anche in ordine al rispetto, o meno, da parte degli Enti locali, dei vincoli del cd. “Patto di Stabilità”; (iii) le periodiche rilevazioni del mark to market dei contratti derivati che influenzano altresì l’assegnazione dei giudizi sul merito di credito degli Enti locali (ossia il loro rating), giudizi attribuiti agli Enti anche dalle stesse banche controparti in ossequio ai principi espressi da Basilea; (iv) il fatto che sin dal gennaio del 2005 il mark to market dei derivati è comunicato dalle banche alla Centrale dei Rischi della Banca d’Italia, e dunque spiega effetto sullo stesso accesso al credito bancario.
* In conclusione, la lettura della sentenza della Cassazione in una chiave che, usando una locuzione ancora recentemente in voga potremmo definire “giusfinanziaria”[16], rende manifesto più di un dubbio sulla non corretta valutazione di concetti finanziari e della normativa settoriale da parte della Suprema Corte. L’auspicio è che possano esservi per i giudici di legittimità occasioni prossime venture per tornare in maniera più meditata sui suddetti concetti e sulle richiamate normative, adottando le dovute correzioni di rotta.

 


 

NOTE

[1] S. GALIMBERTI, “Analisi del recente orientamento giurisprudenziale sul mark-to-market alla luce della teoria e prassi matematico-finanziaria”, in www.dirittobancario.it

[2] Ci si riferisce all’Ordinanza 07-08/02/2012 del Tribunale del Riesame di Terni, con la quale il Tribunale annulla il Decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di Orvieto in data 21/01/2012, commentata da D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, in www.dirittobancario.it

[3] In argomento vedasi le condivisibili valutazioni di CHIAIA P. – SQUASSO S., “Ma i derivati della P.A. erano davvero convenienti?” in “Milano Finanza” dell’11/12/2010, pag. 23.

[4] In www.corteconti.it

[5] In www.corteconti.it

[7] Appare utile ricordare come nel provvedimento il Tribunale di Milano abbia anche chiarito che: “La dimensione particolarmente alta del mark to market iniziale (specie se anche superiore al limite posto dall’art. 3 lett. F del DM 389/2003) esclude la possibilità di attribuire a tale squilibrio la funzione causale di corrispettivo dell’intermediario finanziario. L’applicazione da parte dell’intermediario di commissioni non esplicitate è in contrasto con l’art. 61 del Reg. Consob 11522/98”.

[8] In www.giustizia-amministrativa.it

[9] In www.ilcaso.it

[10] Si veda l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Massimo Tezzon avanti alla VI Commissione “Finanze” della Camera dei Deputati, “Problematiche relative al collocamento di strumenti finanziari derivati” del 30/10/2007, pag. 2 (in termini del tutto conformi vedasi altresì l’Audizione del Direttore generale della Consob Dott. Antonio Rosati avanti alla VI Commissione “Finanze e tesoro” del Senato della Repubblica, “Indagine conoscitiva sulla diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle Pubbliche Amministrazioni” del 18/03/2009). Peraltro, in appendice al testo dell’Audizione del 2009, da ultimo citata, sono riportate le “Istruzioni metodologiche per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”, nelle quali l’Autorità di Vigilanza (che, come noto, in materia di intermediazione finanziaria è non raramente Legislatore di settore, su delega del Legislatore ordinario) illustra “un approccio metodologico di tipo risk based [ossia basato sulle probabilità o meno di verificazione, all’epoca della stipulazione del contratto, di dati “scenari”, NdR] per la qualificazione dei rischi e la determinazione dei costi impliciti nei contratti di indebitamento con sottostanti derivati”. La metodologia risk based è di fatto stata adottata dallo stesso “Schema di Regolamento MEF di attuazione dell’articolo 62 del D.L. n° 112/2008”, ossia dalla bozza dell’emanando nuovo regolamento, licenziata già da tempo del Ministero dell’Economia, e che dovrebbe disciplinare la futura operatività in derivati degli Enti territoriali.

[11] Secondo una prima corrente di pensiero, che valorizza il disposto dell’Allegato 3 al Regolamento Consob n. 11522/1998, laddove si precisa che “alla stipula del contratto, il valore di uno swap è sempre nullo”, all’atto di accensione dello swap i contraenti devono poter fare affidamento sul valore nullo del mark to market: dopotutto, le parti stanno effettuando una “scommessa” sul futuro valore del contratto e la “vittoria” o la “sconfitta” di un giocatore sull’altro è funzione della correttezza o meno delle diverse assunzioni previsionali sui futuri scenari elaborate da ciascun contraente. Discende da tale impostazione che nell’ipotesi in cui uno dei contraenti, all’atto della sottoscrizione dello swap, entri, per così dire, nella “scommessa” in condizioni di vantaggio, debba integralmente compensare lo “svantaggio” patito dell’altro corrispondendogli una somma (l’up front, appunto) di importo pari all’esatto controvalore del “vantaggio” inizialmente acquisito. Secondo altra impostazione – non antitetica, ma certamente diversa rispetto a quella appena sopra esposta – già all’atto dell’accensione dello swap il contraente bancario, che “confeziona” il derivato over the counter, deve poter fare affidamento su taluni margini di copertura dei costi e dei rischi sostenuti (hedging) e su una giusta remunerazione del proprio operato (mark up). Detti importi, in tale prospettiva non solo leciti, ma anche dovuti, andrebbero così “defalcati” dall’importo dell’eventuale up front da riconoscere alla controparte contrattuale. Secondo tale opzione interpretativa, l’attenzione muove dal valore precettivo dell’Allegato 3 del previgente Regolamento Intermediari Consob per ingaggiare il tema dell’equità contrattuale (ossia: remunerazione sì, purché equa) e, in ossequio alle norme di settore (l’art. 21 TUF e le norme di cui agli art. 32 comma V e 61 del previgente Regolamento Intermediari in primis, nonché i rigorosi criteri di cui alla Comunicazione Consob n. DIN/9019104 del 02/03/2009) della trasparenza (la remunerazione è legittima se e solo se il contraente non bancario è stato preventivamente informato dell’esistenza e dell’entità del mark up) .

[12] Cfr. il summenzionato contributo di A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.

[13] Per una più approfondita disamina vedasi ancora A. PALETTA, “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili”, cit.

[14] D. MAFFEIS, “Swap: il Tribunale annulla il decreto di sequestro preventivo a carico dell’intermediario”, cit.


[15]
Sul punto vedasi la già citata Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di Controllo, Audizione alla VI Commissione “Finanze e Tesoro” del Senato della Repubblica del 18/02/2009.

[16] Così già E. LA LOGGIA, “Sul regime gius-finanziario della Regione siciliana”, in Giur. tic. 1948, I, 5, recentemente, A. D. SCANO, “I covenants nei contratti di finanziamento all’impresa: garanzie o strumenti atipici di conservazione della garanzia patrimoniale?”, in “Le Operazioni di finanziamento alle imprese”, a cura di I.DE MURO, Giappichelli Editore, Torino, 2010, pag. 85.

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