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PRIMA SENTENZA DELLA CASSAZIONE IN TEMA DI VALIDITA’ DELLA DICHIARAZIONE SUL POSSESSO DELLO STATUS DI “OPERATORE QUALIFICATO”



 Commento a cura dell’avv. Giuseppe Angiuli

Con la sentenza emessa dalla prima sezione civile (26 maggio 2009, n. 12138) il supremo collegio ha preso posizione per la prima volta sulla valenza giuridica da attribuire alla autocertificazione di “operatore qualificato” che i legali rappresentanti di imprese (ed enti pubblici) hanno rilasciato alle banche alla luce dell’art. 13 del vecchio regolamento CONSOB n. 5387 del 1991 e, in seguito alla sua abrogazione, alla luce del successivo art. 31 del regolamento CONSOB attuativo del T.U.F. in materia di intermediari
(deliberazione n. 11522 del 1998).


Come è noto, quest’ultima norma (nella sua versione apportata giusta delibera n. 13710 del 6.8.2002), ricalcando la analoga disposizione del 1991 a cui fa riferimento la Cassazione nella sentenza che ci occupa, prevedeva, nella parte finale del suo secondo comma, una definizione decisamente ampia di “operatore qualificato”, facendo discendere la sussunzione in tale categoria, per società e persone giuridiche, anche dal semplice possesso “di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante”.

Dall’inquadramento nella categoria di “operatore qualificato” discendeva per il soggetto intermediario l’innegabile vantaggio di poter evitare di soggiacere agli importanti obblighi di comportamento di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1, del citato regolamento, espressione della c.d. know your customer rule; in particolare, la situazione di negoziare con un “operatore qualificato”, sottraeva le banche agli obblighi dettati dall’art. 28, comma 1, che prevedeva a carico dell’intermediario e prima dell’avvio dell’operazione di investimento l’obbligo di chiedere all’investitore notizie circa la sua esperienza in materia di investimenti e strumenti finanziari, la sua situazione finanziaria, i suoi obiettivi di investimento nonchè circa la sua propensione al rischio, con l’ulteriore obbligo di far constare nel contratto l’eventuale rifiuto del cliente di fornire notizie.
Un’applicazione alquanto “disinvolta” (absit iniuria verbis) della citata disposizione ex art. 31, da parte delle banche, ha concretamente prodotto nella realtà applicativa la seguente paradossale situazione: molti imprenditori (ma anche dirigenti comunali o di altri enti locali territoriali) hanno firmato con leggerezza una dichiarazione loro predisposta su un modulo dalla banca autocertificando la propria competenza in tema di strumenti finanziari e così esonerando la stessa banca dal fornire loro quelle informazioni essenziali sulle caratteristiche e sulla rischiosità degli strumenti finanziari negoziati.
E’ bene ricordare che, a partire dal 2 novembre 2007, con l’ingresso in vigore della nuova normativa di fonte secondaria in materia di intermediari (di cui al regolamento CONSOB n. 16190 del 29 ottobre 2007), la contestata norma sul potere dei clienti di “autocertificare” la propria patente di competenza in materia finanziaria è scomparsa mentre il recepimento della direttiva MIFID ha finalmente introdotto nel nostro ordinamento dei parametri oggettivi perché un’impresa possa essere qualificata al pari di un “operatore qualificato”.
Tuttavia, una buona parte del contenzioso attualmente pendente tra banche e clienti in materia di intermediazione finanziaria rinviene da contratti-quadro stipulati quasi sempre prima dell’autunno del 2007 e pertanto la pronuncia in rassegna resa dai giudici ermellini non può non costituire un decisivo metro di orientamento per i Tribunali di merito e per i collegi arbitrali oggi chiamati a dirimere le controversie nella materia de qua.

In sostanza, con la sentenza n. 12138 del 2009, la Corte di Cassazione ha posto i seguenti punti fermi:

1. la dichiarazione firmata dal legale rappresentante della società che attesti la sussistenza di una certa competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari non può essere fatta assurgere al rango di confessione stragiudiziale in quanto essa non consiste in una dichiarazione di scienza e verità circa un fatto obiettivo (1);

2. pur tuttavia, detta dichiarazione esonera comunque l’intermediario dal porre in essere ulteriori verifiche sul punto dell’esistenza di una effettiva competenza ed esperienza in capo al cliente, a meno che dalla documentazione già in possesso dell’intermediario non sia di per sé desumibile una discrepanza tra contenuto della dichiarazione e realtà effettiva;

3. è facoltà del giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., dedurre argomenti di prova dalla sottoscrizione della dichiarazione in discorso, ferma restando la facoltà del cliente di allegare e provare specifiche circostanze volte a contrastare la veridicità del contenuto della prefata dichiarazione.

Quindi, secondo la Corte nomofilattica, va posto a carico dell’imprenditore che agisce contro la banca – “al fine di escludere la sussistenza in concreto della propria competenza ed esperienza in materia di valori mobiliari” – il preciso onere di provare in giudizio la non veridicità di una dichiarazione da lui stesso rilasciata alla banca, solitamente all’atto della firma del cd. “contratto-quadro”.
L’intervento della Suprema Corte appare in evidente contrasto con l’orientamento dominante precedentemente manifestato da diversi Tribunali di merito i quali, negli ultimi anni, avevano più volte sancito il (ben diverso) principio per il quale ciò che conta, a dispetto di quanto il legale rappresentante di una società possa avere o meno dichiarato nella modulistica predispostagli dalla banca, era accertare la effettiva sussistenza, in capo al legale rappresentante della società, di una reale competenza ed esperienza in materia di strumenti finanziari (2). Non è quindi fuori luogo affermare che, dopo la pronuncia della sentenza in rassegna, alla quale diversi Tribunali di merito sembrano negli ultimi tempi essersi adeguati (3), si è fatta più difficile la strada per quelle imprese che hanno avviato contenziosi contro le banche cercando di “smontare” gli effetti perversi della più volte menzionata “autocertificazione”.

1. L’art. 2730 cod. civ. definisce la confessione come “dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte”.

2. Su tutte vd. Tribunale di Milano, Sez. VI Civile – G.U. Dr. C.R. Raineri – 2 aprile 2004, pubbl. in www.ilcaso.it, ove si affermava, a proposito dell’art. 31, reg. CONSOB n. 11522/1998: “Sul punto non può sottacersi l’indubbio limite di una siffatta disposizione normativa nella parte in cui affida ad una dichiarazione autoreferenziale la individuazione di un “operatore qualificato”, soprattutto ove si consideri che da tale qualificazione discendono conseguenze rilevantissime sul piano delle norme di protezione dell’investitore; nondimeno non appare ragionevole ipotizzare che l’accertamento in concreto di un requisito dai così incerti confini (essere la controparte contrattuale “in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari”) debba essere rimesso alla Banca piuttosto che al prudente apprezzamento del legale rappresentante della società”.

3. Cfr. Tribunale Torino, 31 gennaio 2011 – Pres. Alessandra Aragno – Est. Rossana Zappasodi, pubbl. su www.ilcaso.it.

* * *

Cass., sez. I, 26-05-2009, n. 12138.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza del 27 gennaio 2000 il Tribunale di Torino respingeva le domande con le quali la Ceramica Ariostea Monocotture s.p.a. aveva convenuto in giudizio l’Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a., chiedendone la condanna al pagamento, a titolo restitutorio – previo accertamento dell’inesistenza del diritto all’addebito, anche ai sensi dell’art 1460 c.c. – e/o risarcitorio, della somma di L. 3.484.222.500, comprensiva dei diritti di commissione, oltre a maggior danno e a interessi legali, pari alle perdite complessivamente subite a seguito al compimento in data (OMISSIS), tramite detta banca, di un’operazione di swap di 30 milioni di marchi tedeschi con scadenza al 10 dicembre 1992. 2. Avverso tale sentenza proponeva appello la s.p.a. Ariostea (già Ceramica Ariostea Monocottura s.p.a.) nei confronti dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino – Istituto Mobiliare Italiano s.p.a.
(già Istituto Bancario San Paolo di Torino s.p.a.), deducendo:
2.a. l’inopponibilità nei suoi confronti del contratto di questione, in quanto estraneo all’oggetto sociale, pienamente conosciuto e comunque agevolmente conoscibile dalla banca;
2.b. la violazione della L. n 1 del 1991, artt. 6 e 9, art. 1710 c.c. e segg. e art. 2697 c.c., art. 3 preleggi e art. 11 e segg. del Regolamento Consob 2 luglio 1991, n. 5387, per avere il Tribunale erroneamente giudicato legittimo e applicabile l’art. 13 del menzionato Regolamento Consob ed avere comunque ritenuto che la società attrice e appellante fosse un operatore qualificato, conseguentemente escluso dall’ambito di applicazione delle regole di salvaguardia, che, se applicate, avrebbero invece impedito il perfezionamento dell’operazione finanziaria in precedenza indicata, poi risultata disastrosa;
2.c. la mancata considerazione, da parte del primo giudice, sia della totale irragionevolezza e sconvenienza dell’operazione di swap posta in essere, secondo una situazione di fatto perfettamente conosciuta dalla banca, trovatasi ad agire in conflitto di interessi ed in piena violazione della L. n. 1 del 1991, art. 6, sia delle dimensioni eccessive dell’operazione in rapporto alla situazione finanziaria della società, di cui la banca conosceva la scarsità delle risorse, sì da avere il dovere di astenersi dal compiere l’operazione.
3. Con sentenza n. 174/2003 del 18 febbraio 2003, la Corte di appello di Torino respingeva l’appello, così motivando:
3.a. doveva escludersi l’estraneità all’oggetto sociale della Ariostea dell’operazione di swap posta in essere; in particolare, sulla base delle circostanze del caso concreto, non poteva ritenersi che detta operazione non fosse neppure potenzialmente diretta a realizzare l’oggetto sociale dell’Ariostea, in quanto priva di qualsiasi legame, anche mediato e indiretto, con detto oggetto, tenuto conto che si era trattata di un’operazione unica, anche se di rilevante importo, di certo stipulata nell’interesse della società e non di terzi ed in relazione ad una valuta (marco tedesco), solitamente utilizzata dalla società nello svolgimento dei cospicui rapporti commerciali intrattenuti con imprese della (OMISSIS);
doveva inoltre considerarsi che, all’epoca dei fatti, il marco tedesco costituiva notoriamente la moneta più forte nell’area europea e che un esito diverso del contratto in questione avrebbe portato nelle casse dell’Ariostea una somma ingente, utilissima per ammodernare gli impianti, migliorare la produzione ed aumentare il conseguente giro d’affari, mentre aveva costituito un evento del tutto straordinario, nel settembre 1992, l’uscita della L. italiana dallo SME, che aveva portato detta valuta a subire un notevole deprezzamento di valore rispetto al marco;
3.b. andava anche esclusa, sulla base della documentazione versata in atti, la mala fede della banca, che non solo non si trovava nelle condizioni di formulare alcun giudizio di estraneità dell’operazione all’oggetto sociale dell’Ariostea, ma aveva semmai tutte le migliori ragioni per essere convinta del contrario, in quanto la società appellante, soggetto di non secondaria importanza economica nella produzione e vendita di materiale ceramico, intratteneva cospicui rapporti con il mercato estero ed aveva dichiarato di avere in corso o di dover stipulare futuri contratti con soggetti non residenti, destinati a generare crediti in valuta estera, per i quali si rendeva necessario cautelarsi contro i rischi di cambio, così enunciando la stessa appellante quel collegamento tra l’operazione di swap posta in essere e la propria attività d’impresa; doveva inoltre considerarsi che il volume di affari dell’Ariostea con la (OMISSIS) e l’entità della sua posizione creditoria verso la clientela (OMISSIS) costituivano dati interni alla società, che tra l’altro operava con una pluralità di istituzioni creditizie, e in nessun modo comunicati alla banca, nè da questa acquisibili;
3.c. l’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, che introduceva la figura dell’operatore qualificato escluso dall’ambito di applicazione delle regole di salvaguardia, doveva considerarsi pienamente legittimo, contenendo una disposizione praeter legem e non contra legem ed essendosi limitato a disciplinare gli spazi vuoti lasciati dalla legge, in quanto demandati alla normativa regolamentare; nello stesso tempo prive di fondamento erano le censure dell’appellante sulla propria qualificazione come operatore qualificato; infatti la società Ariostea, dopo l’entrata in vigore della L. n. 1 del 1991, mediante atto scritto aveva conferito mandato all’Istituto Bancario San Paolo per la negoziazione di valori mobiliari, dichiarando di essere un operatore qualificato ai sensi dell’art. 13 del menzionato regolamento Consob e rientrante pertanto tra le società o persone giuridiche in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari; tale dichiarazione aveva carattere impegnativo per il soggetto dichiarante e su di essa la legge non prevedeva controlli in via preventiva o successiva, permettendo l’esercizio dell’opzione senza alcun condizionamento, con la conseguenza che, attribuitasi la qualità di operatore qualificato esperto in materia di operazioni su valori mobiliari, la società non poteva tornare sui suoi passi e, intuito il possibile esito negativo del contratto concluso, invocare a proprio favore l’applicazione delle disposizioni elencate nell’art. 13, comma 1, del regolamento Consob 1991/5387;
3.d. inoltre l’Ariostea, per il peso economico – commerciale rivestito sia sul mercato nazionale, che su quello internazionale, per il volume di affari registrato, per le persone ed i mezzi di cui disponeva, doveva essere considerata un operatore economico qualificato, in quanto tale edotto dei meccanismi di funzionamento delle operazioni in campo finanziario e quindi consapevole dei rischi a cui operazioni come quella conclusa potevano esporre;
3.e. erano sostanzialmente irrilevanti tutte le censure inerenti alle concrete modalità di effettuazione dell’operazione di swap, a causa dell’inapplicabilità all’Ariostea, quale operatore qualificato, delle norme di protezione di cui alle disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 e del citato regolamento Consob, dovendosi comunque escludere la mala fede della banca nel dare corso all’operazione in questione, anche perchè la fideiussione e la garanzia pignoratizia prestate dalla società alla banca medesima erano antecedenti di circa un mese alla data di stipulazione del contratto di swap contestato e non si rinvenivano in atti da parte della banca richieste di garanzie quali condizioni indispensabili per concludere l’operazione di swap. 4. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la s.p.a. Ariostea sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso e memoria Intesa Sanpaolo s.p.a., quale incorporante di Sanpaolo Imi s.p.a..

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente – denunciando violazione o falsa applicazione della L. n. 1 del 1991, art. 6, lett. A), D), E), F), e art. 9, dell’art. 1710 c.c. e segg., dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, dell’art. 3 preleggi, comma 2, e art. 4 preleggi, comma 1, nonchè omessa pronuncia e insufficiente motivazione – censura la sentenza impugnata per non avere i giudici di appello dichiarato illegittimo l’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, il quale, nell’istituire la categoria degli operatori qualificati e nell’escludere l’applicazione nei loro confronti delle norme di protezione fissate dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, così introducendo arbitrariamente una specificazione non contemplata dalla Legge Delega, avrebbe violato il disposto dell’art. 3 disp. gen., comma 2, e dell’art. 4 disp. gen., comma 1. In particolare, quanto al citato art. 3 disp. gen., comma 2, sarebbe stato superato il limite indicato dalla L. n. 1 del 1991, art. 9, consistente nel rispetto dei principi enunciati dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, senza la previsione di alcuna deroga di operatività in ragione della particolare natura del soggetto cliente. Invece, con riferimento all’art. 4 disp. gen., comma 1, sarebbe stata introdotta una disposizione contraria alla L. n. 1 del 1991, artt. 1 e 6, con la previsione di un limite di operatività delle norme primarie alle sole controparti di un intermediario autorizzato, che non siano operatori qualificati, senza tener conto che le regole di comportamento previste dalla L. n. 1 del 1991, art. 6 hanno carattere inderogabile, fissando canoni di condotta volti a garantire l’integrità del mercato.
1.1. Il motivo è privo di fondamento.
Giova rilevare che la fattispecie è regolata, ratione temporis, dalla L. n. 1 del 1991, art. 9 – che ha demandato alla Consob, d’intesa con la Banca d’Italia il compito di determinare “le regole di comportamento che le società di intermediazione mobiliare devono osservare nello svolgimento delle attività per le quali sono autorizzate…” – e dall’art. 13 del regolamento Consob 2 luglio 1991, n. 5387, che, in attuazione della delega conferita dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 9, ha disposto che agli operatori qualificati non si applicano determinate norme di salvaguardia ed ha qualificato come operatori qualificati, tra gli altri, “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari espressamente dichiarata per iscritto nel contratto di cui all’art. 9”.
Il quadro giuridico di riferimento è stato successivamente innovato dalla direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, la quale, nel far riferimento all’opportunità di tener conto delle varie esigenze e nel prendere in considerazione possibili diverse categorie di investitori con esigenze di tutela differenziate, riconosce al legislatore nazionale una certo margine di discrezionalità circa i parametri da utilizzare per la individuazione delle categorie per le quali attuare forme di tutela differenziata.
La menzionata direttiva è stata recepita dal D.Lgs. n. 58 del 1998, che, all’art. 6 ha previsto che la vigilanza regolamentare sia svolta dalla Consob, sentita la Banca d’Italia, “tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei medesimi”, dovendosi così ritenere che la normativa primaria introdotta dal D.Lgs. n. 58 del 1998 riconosce la necessità di graduare la tutela giuridica offerta alla clientela degli intermediari finanziari.
In applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, il successivo regolamento Consob 11522/1998 ha previsto all’art. 31, in favore dei cosiddetti operatori qualificati, un’ampia deroga alla normativa generale in ordine alla tutela del cliente, espressamente ricomprendendo tra gli operatori qualificati – con disposizione che è stata anche successivamente reiterata – “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante”. 1.2. Le stesse esigenze di tutela differenziata degli investitori erano però presenti in precedenza, pur in mancanza di espresse previsioni nella normativa primaria, nel sistema di tutela delineato dalla L. n. 1 del 1991. Invero, l’opportunità di non estendere a tutti i clienti la normativa a tutela dell’investitore risponde all’esigenza di contemperare la protezione del cliente medesimo con le ragioni di celerità e di flessibilità dei rapporti contrattuali nel peculiare settore degli investimenti mobiliari, in quanto riservare ad un cliente particolarmente esperto l’identico trattamento previsto per un cliente ordinario, privo di specifiche conoscenze ed esperienza nel settore, conduce all’inutile applicazione di norme di salvaguardia, che si traducono in un rallentamento delle operazioni contrattuali e in un incremento dei costi, senza alcun concreto vantaggio per il cliente che sia già in grado di conoscere e valutare le caratteristiche e i rischi specifici dell’operazione. Alla luce di tali principi vanno interpretate “le regole di comportamento” che la L. n. 1 del 1991 ha demandato alla Consob di determinare per lo svolgimento da parte delle società di intermediazione mobiliare delle attività alle quali sono state autorizzate. Legittimamente, pertanto, la Consob, anche in mancanza di un espressa previsione contenuta nella normativa primaria – successivamente introdotta, come già precisato – ma recependo le regole di flessibilità operativa richiesta dal mercato dell’intermediazione mobiliare e tenendo conto della mancanza di necessità di approntare una specifica e pregnante tutela per i servizi offerti a clienti già particolarmente esperti, ha consentito la disapplicazione di alcune norme di salvaguardia nei confronti di tali clienti, in attuazione della delega ricevuta dalla norma di riferimento, che ha inteso attribuire alla Consob, nell’ambito delle sue discrezionali valutazioni, un potere di salvaguardia con riferimento a situazioni in cui erano da ravvisare effettive esigenze di tutela sostanziale di operatori sprovvisti dei requisiti di conoscenza e di esperienza adeguati al livello di rischiosità delle operazioni poste in essere.
Come esattamente rilevato dalla Corte d’appello, con l’art. 13 del regolamento 1991/5387, la Consob, disciplinando – nell’esercizio del potere, attribuitole dalla legge, di determinare le regole di comportamento delle società di intermediazione mobiliare – fattispecie non direttamente prese in considerazione dalla norma primaria di riferimento, ha delineato una disciplina che non si pone contra legem, ma si configura praeter legem, così provvedendo a colmare quegli spazi lasciati vuoti dalla legge, proprio perchè demandati alla normativa regolamentare.
In tal modo la Consob ha esercitato la potestà regolamentare propria delle autorità amministrative indipendenti, che non mira soltanto a precisare in dettagli tecnici il contenuto di regole di comportamento fissate in linea generale dalla legge, ma è funzionale ad un esigenza di ampia regolamentazione di settori operativi, da svolgersi nel quadro dei principi generali stabiliti dalla normativa primaria, ma con larghi margini di scelta discrezionale, così da poter disciplinare autonomamente materie aventi dignità legislativa ma non trattate dalla legge e realizzare, in tal modo, una funzione integratrice delle fonti primarie.
2. Con il secondo motivo la società Ariostea denuncia, in via subordinata, la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 e della L. n. 1 del 1991, art. 6, lett. A), D), E), F), nonchè vizio di omessa pronuncia, censurando la sentenza impugnata in quanto i giudici di appello, dopo aver ritenuto legittimo l’art. 13 del regolamento Consob citato, avrebbero errato nel attribuire alla società medesima natura di operatore qualificato, in conseguenza della semplice sottoscrizione di un documento predisposto dalla banca, senza indagare nel merito se la società fosse effettivamente in possesso di una specifica competenza ed esperienza nella materia dell’intermediazione mobiliare. In particolare la ricorrente deduce che:
2.1. per l’applicazione del richiamato art. 13 è necessario che la persona giuridica sia in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari e che tale situazione venga dichiarata, in quanto non è la semplice dichiarazione che attribuisce natura costitutiva dello status di operatore qualificato, bensì la compresenza dei requisiti sostanziali insieme con la dichiarazione medesima;
2.2. la Corte di merito non ha affrontato il diverso, ma connesso, problema dei limiti di opponibilità alla banca di una situazione reale diversa da quella dichiarata, laddove la divergenza sia conosciuta o conoscibile dall’istituto; in realtà i giudici di appello avrebbero dovuto accertare se l’Ariostea fosse effettivamente o meno un operatore qualificato, esaminando la specifica censura sollevata nell’atto di appello alla soluzione affermativa a cui, erroneamente, era pervenuto il primo giudice; invece la Corte di merito ha omesso di verificare se la divergenza tra la situazione reale e quella dichiarata esistesse e fosse nota alla banca, circostanza che, se accertata, avrebbe finito per attribuire alla dichiarazione contenuta nel modulo fatto sottoscrivere alla società il valore di una mera clausola di stile;
2.3. nel caso di specie, l’Ariostea non era un operatore abituale, e neppure occasionale, del mercato dei valori mobiliari e perciò non poteva avere competenza ed esperienza in materia, mentre la ratio dell’art. 13, se legittimo e applicabile al caso di specie, era quella di escludere dall’ambito di protezione stabilito dalla L. n. 1 del 1991, art. 6 soltanto i soggetti che si occupassero con professionalità del mercato dei valori mobiliari e che fossero perciò in possesso di competenza ed esperienza specifiche, intendendosi per professionalità un’organizzazione mirata allo scopo, nella specie del tutto inesistente come ben noto alla banca che da anni intratteneva rapporti con la società, della quale conosceva l’effettiva attività e l’organizzazione aziendale, nonchè i relativi prodotti ed i mercati di riferimento;
2.4. il documento datato 12 aprile 1992, predisposto dalla banca e sottoposto alla firma dell’Ariostea, era del tutto generico e inidoneo allo scopo e la Corte di merito ha finito per legittimare l’utilizzo da parte della banca di un modulo prestampato, quale mezzo preordinato alla disapplicazione della norma primaria e quindi volto alla realizzazione di un’ingiustificata e invalida limitazione di responsabilità dell’intermediario, in contrasto con i principi fissati dalla legge delega.
3. Anche tale motivo è privo di fondamento, ma la motivazione in diritto della sentenza impugnata, sul punto concernente la rilevanza e l’efficacia della dichiarazione relativa al possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari, deve essere corretta nei termini qui di seguito precisati.
L’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 ha definito come operatore qualificato, tra gli altri soggetti e per quel che rileva nel presente giudizio, anche “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari espressamente dichiarata per iscritto” nel contratto previsto dal precedente art. 9 del medesimo regolamento. Quindi, in base alla citata disposizione regolamentare, la natura di operatore qualificato discende dalla contemporanea presenza di due requisiti: uno di natura sostanziale, vale a dire l’esistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in valori mobiliari in capo al soggetto (società o persona giuridica) che intenda concludere un contratto avente ad oggetto operazioni su detti valori; l’altro, di carattere formale, costituito dalla espressa dichiarazione di possedere la competenza ed esperienza richieste, sottoscritta dal soggetto medesimo.
Appare al riguardo evidente la ratio della norma in esame, volta a richiamare l’attenzione del cliente circa l’importanza della dichiarazione ed a svincolare l’intermediario dall’obbligo generalizzato di compiere uno specifico accertamento di fatto sul punto, tenuto anche conto che nella disposizione in esame non si rinviene alcun riferimento alla rispondenza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione di fatto effettiva e non è previsto a carico dell’intermediario alcun onere di riscontro della veridicità della dichiarazione, riconducendo invece alla responsabilità di chi amministra e rappresenta la società dichiarante gli effetti di tale dichiarazione.
3.1. Tali considerazioni inducono a ritenere che, in mancanza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario in valori mobiliari, la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante, che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari – pur non costituendo dichiarazione confessoria, in quanto volta alla formulazione di un giudizio e non all’affermazione di scienza e verità di un fatto obiettivo (art. 2730 c.c.; Cass. 1973/1662; 1981/5025; 2002/16127; 2006/13212) – esoneri l’intermediario stesso dall’obbligo ulteriori verifiche sul punto e, in carenza di contrarie allegazioni specificamente dedotte e dimostrate dalla parte interessata, possa costituire argomento di prova che il giudice – nell’esercizio del suo discrezionale potere di valutazione del materiale probatorio a propria disposizione ed apprezzando il complessivo comportamento extraprocessuale e processuale delle parti (art. 116 c.p.c.) – può porre a base della propria decisione, anche come unica e sufficiente fonte di prova in difetto di ulteriori riscontri, per quanto riguarda la sussistenza in capo al soggetto che richieda di compiere operazioni nel settore dei in valori mobiliari dei presupposti per il riconoscimento della sua natura di operatore qualificato ed anche ai fini dell’accertamento della diligenza prestata dall’intermediario con riferimento a tale specifica questione, ai sensi della L. n1 del 1991, art. 13, comma 10, (cfr. Cass. 1998/5784; 2000/4085; 2002/10268; 2003/15172; 2005/4651).
Nel caso di asserita discordanza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione reale da tale dichiarazione rappresentata, graverà su chi detta discordanza intenda dedurre, al fine di escludere la sussistenza in concreto della propria competenza ed esperienza in materia di valori mobiliari, l’onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e la conoscenza da parte dell’intermediario mobiliare delle circostanze medesime, o almeno la loro agevole conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro, già nella disponibilità dell’intermediario stesso o a lui risultanti dalla documentazione prodotta dal cliente.
3.2. Nel caso di specie, dalla sentenza impugnata si evince che la società attrice, a fronte della propria dichiarazione di essere un operatore qualificato ai sensi dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387, non ha fornito alcun idoneo elemento di prova in ordine all’esistenza di circostanze che consentissero di escludere tale sua qualità, o comunque la propria competenza ed esperienza nel campo delle operazioni in valori mobiliari, ed alla conoscenza o conoscibilità di tali circostanze da parte della banca intermediaria. Al contrario, la Corte di appello di Torino, con idonea e logica motivazione che resiste alle censure sollevate dalla ricorrente, ha accertato che la società Ariostea – per il peso economico – commerciale rivestito sia sul mercato nazionale, che su quello internazionale (in relazione al quale, per il compimento di operazioni in valuta straniera, era necessario adottare cautele contro i rischi di cambio), per il volume di affari registrato, per le persone ed i mezzi di cui disponeva – doveva ritenersi a conoscenza delle regole che disciplinano il mercato dei valori mobiliari e consapevole dei rischi a cui operazioni come quella conclusa potevano esporre, così da poter essere considerata un operatore economico qualificato, ai sensi dell’art. 13 del regolamento Consob 1991/5387 e ai fini da tale disposizione perseguiti.
4. Con il terzo motivo la società Ariostea – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2384 bis, 2697 ed 2909 c.c., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione – deduce in via alternativa che la sentenza di appello è illegittima nel capo in cui ha escluso la estraneità all’oggetto della società dell’operazione di swap posta in essere e la mala fede della banca intermediaria.
In particolare con la complessiva censura si afferma che:
4.1. la società Ariostea svolge come attività specifica ed esclusiva la produzione e commercializzazione di piastrelle ceramiche e, poichè il Tribunale ha accertato con pronuncia passata in giudicato la natura puramente speculativa del contratto di swap, l’indagine della Corte di appello non poteva che portare a riconoscere l’estraneità del contratto all’oggetto sociale;
4.2. quanto alla mala fede della banca, sono stati acquisiti agli atti inequivoci documenti atti a comprovare la conoscenza da parte dell’istituto di credito della situazione patrimoniale, finanziaria e valutaria dell’Ariostea, che avrebbe comunque potuto essere oggetto di richiesta di informazioni; in particolare, la banca era certamente a conoscenza della reale situazione finanziaria e valutaria di Ariostea e sapeva che la società era indebitata in marchi tedeschi con mutui e leasing in tale valuta e che, per prassi costante, si faceva anticipare dalle banche i crediti in valuta, con la conseguenza che non esistevano crediti non anticipati; in particolare l’istituto bancario era a conoscenza che l’operazione di swap del (OMISSIS) per 30 milioni di marchi aveva natura meramente speculativa, estranea all’oggetto sociale.
5. Anche tale censura è priva di fondamento.
La Corte di appello, ancora una volta con congrua motivazione, immune da vizi logici, ha escluso l’estraneità all’oggetto sociale dell’Ariostea dell’operazione di swap posta in essere dall’attrice, anche con riferimento agli aspetti più strettamente speculativi dell’operazione medesima, sulla base delle considerazioni dettagliatamente già esposte al precedente punto 3.a. della narrativa della presente sentenza.
La ricorrente, lungi dal configurare specifici vizi della motivazione, si limita a contrapporre all’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dai giudici di appello una propria e diversa valutazione delle stesse risultanze, così mirando inammissibilmente al riesame, in sede di giudizio di legittimità, dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito e delle conclusioni da lui raggiunte (Cass. 2000/5806; 2003/17651;
2004/15675; 2007/16955).
Assume rilievo a tale riguardo il principio, già più volte affermato da questa Corte, secondo cui i vizi della sentenza posti a base del ricorso per Cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o consistere in censure che investano la ricostruzione della fattispecie concreta, o che siano attinenti al difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (Cass. 2007/7972; 2007/13954).
6. Le considerazioni che precedono conducono al rigetto del ricorso.
La parziale correzione della motivazione in diritto della sentenza impugnata giustifica la compensazione per la metà delle spese del giudizio di cassazione, che per la restante metà, da liquidarsi come in dispositivo, vanno poste a carico della ricorrente secondo il principio della soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso. Compensa per la metà le spese del giudizio di cassazione e condanna la ricorrente al pagamento della restante metà, che liquida in Euro 7.700,00, di cui Euro 7.500,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2009

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